Un anno fa la strage dei raid – di Vittorio Arrigoni (da il manifesto, 27/12/2009)
Siamo i sopravvissuti. Testimonianze ambulanti, condannati a rivoluzionare le nostre vite come pegno per essere scampati ad una morte scontata. A bombe israeliane che non facevano distinzione fra civile e militare, fra civile palestinese, spagnolo, inglese, italiano. Gaza da immensa prigione s’è tramutata per tre settimane in un tiro a segno. Raid a tappeto su tutta la Striscia, migliaia di profughi in fuga da nord a sud, da sud a nord, recitanti dentro, in trappola, senza rifugio. Quando in massa si sono riversati nelle scuole delle Nazioni Unite credendosi al sicuro tra mura bianche e blu con gli stemmi «Onu», Israele le ha intenzionalmente colpite. E i caccia israeliani hanno poi incenerito la sede Onu nel centro di Gaza city.
Con i compagni dell’International Solidarity Movement eravamo entrati nella Striscia come attivisti prima dell’operazione Piombo Fuso del 27 dicembre 2008, e ne siamo usciti come qualcos’altro: quei 22 giorni che seguirono del gennaio scorso hanno stravolto quello che siamo oggi. Leila, hippy australiana, s’è rimessa sui libri. Dopo aver raccolto decine di corpi straziati dai cecchini dinnanzi all’ospedale Al Quds, poi bruciato col fosforo bianco, diventerà una fantastica infermiera senza frontiere. Natalie, giovane libanese, è certa che i diritti umani sono la sua strada, dopo aver vissuto sulla sua pelle che i crimini compiuti «dall’unica democrazia del Medio Oriente» sono rimasti pressoché impuniti.
Andrew, scozzese, si è confinato lontano dal mondo civilizzato, in solitudine a colloquio coi suoi spettri, i miei stessi, per reificare una esperienza impossibile da sciogliere nell’oblio. Alberto Arce, spagnolo, l’ho reicontrato a novembre a Firenze alla presentazione del suo pluripremiato «To Shoot An Elephant». Poche parole fra noi, più complici sguardi e un continuo passarci una fiaschetta di alcol come palliativo per la comune esperienza sulle ambulanze palestinesi, rivissuta sullo schermo. Poi con lui ritrovarsi a discutere su come riuscire a cavar fuori dalla nostre menti la pietra della follia, se con un bisturi o con l’analisi, visto che molti di noi a distanza di un anno sono ancora in cura psicologica. Semplicemente, non riusciamo ancora a capacitarci di come noi Sì e altri No. Perché mentre corpi umani venivano maciullati tutt’attorno, noi l’abbiamo scampata, nella macabra cabala dei bombardamenti israeliani che «miravano» la popolazione civile. Tutti afflitti da post traumatic stress. E se lo siamo noi, privilegiati per essere riusciti a evacuare, vi lascio immaginare come se la passano un milione e mezzo di palestinesi, che oltre a essersi presi in testa tonnellate di armi illegali, non hanno potuto godere del privilegio di una boccata d’aria fuori dalla più grande prigione a cielo aperto del mondo, Gaza.
Mentre l’assedio continua al rallentatore, smagrendo ventri affamati e ammalando menti aride di speranza. Mentre secondo il capo di stato maggiore israeliano, Gabi Ashkenazi, «la prossima guerra sarà a Gaza», ancora e ancora, e minacce di nuovi imminenti attacchi sono passeggeri come nuvole tenebrose nel cielo di una Palestina occupata ormai da più di 42 anni. Congedandosi da me, Alberto m’ha confidato di un inaspettato istinto paterno, di come, tornato in Spagna gli veniva naturale stringere a sé ogni bambino quasi per proteggerlo. E per questo presto diventerà padre. Sia maschio o femmina suo figlio porterà il nome di una delle innocenti vittime dei bombardamenti di gennaio. Il governo israeliano gli ha fornito un’ampia scelta di appellativi possibili avendo ucciso più di 400 bambini.
Tutti noi reduci, insieme ad altri 1.500 cittadini di 42 paesi diversi, ci siamo dati appuntamento oggi qui al Cairo. Per una marcia che si spera possa fungere da lima per segare le sbarre di Gaza e da cassa di risonanza per i cittadini del mondo sensibili alla pace e ai diritti umani e consapevoli di quanto sia più avvilente il silenzio degli onesti del disprezzo dei violenti. Restiamo umani
Siamo i sopravvissuti. Testimonianze ambulanti, condannati a rivoluzionare le nostre vite come pegno per essere scampati ad una morte scontata. A bombe israeliane che non facevano distinzione fra civile e militare, fra civile palestinese, spagnolo, inglese, italiano. Gaza da immensa prigione s’è tramutata per tre settimane in un tiro a segno. Raid a tappeto su tutta la Striscia, migliaia di profughi in fuga da nord a sud, da sud a nord, recitanti dentro, in trappola, senza rifugio. Quando in massa si sono riversati nelle scuole delle Nazioni Unite credendosi al sicuro tra mura bianche e blu con gli stemmi «Onu», Israele le ha intenzionalmente colpite. E i caccia israeliani hanno poi incenerito la sede Onu nel centro di Gaza city.
Con i compagni dell’International Solidarity Movement eravamo entrati nella Striscia come attivisti prima dell’operazione Piombo Fuso del 27 dicembre 2008, e ne siamo usciti come qualcos’altro: quei 22 giorni che seguirono del gennaio scorso hanno stravolto quello che siamo oggi. Leila, hippy australiana, s’è rimessa sui libri. Dopo aver raccolto decine di corpi straziati dai cecchini dinnanzi all’ospedale Al Quds, poi bruciato col fosforo bianco, diventerà una fantastica infermiera senza frontiere. Natalie, giovane libanese, è certa che i diritti umani sono la sua strada, dopo aver vissuto sulla sua pelle che i crimini compiuti «dall’unica democrazia del Medio Oriente» sono rimasti pressoché impuniti.
Andrew, scozzese, si è confinato lontano dal mondo civilizzato, in solitudine a colloquio coi suoi spettri, i miei stessi, per reificare una esperienza impossibile da sciogliere nell’oblio. Alberto Arce, spagnolo, l’ho reicontrato a novembre a Firenze alla presentazione del suo pluripremiato «To Shoot An Elephant». Poche parole fra noi, più complici sguardi e un continuo passarci una fiaschetta di alcol come palliativo per la comune esperienza sulle ambulanze palestinesi, rivissuta sullo schermo. Poi con lui ritrovarsi a discutere su come riuscire a cavar fuori dalla nostre menti la pietra della follia, se con un bisturi o con l’analisi, visto che molti di noi a distanza di un anno sono ancora in cura psicologica. Semplicemente, non riusciamo ancora a capacitarci di come noi Sì e altri No. Perché mentre corpi umani venivano maciullati tutt’attorno, noi l’abbiamo scampata, nella macabra cabala dei bombardamenti israeliani che «miravano» la popolazione civile. Tutti afflitti da post traumatic stress. E se lo siamo noi, privilegiati per essere riusciti a evacuare, vi lascio immaginare come se la passano un milione e mezzo di palestinesi, che oltre a essersi presi in testa tonnellate di armi illegali, non hanno potuto godere del privilegio di una boccata d’aria fuori dalla più grande prigione a cielo aperto del mondo, Gaza.
Mentre l’assedio continua al rallentatore, smagrendo ventri affamati e ammalando menti aride di speranza. Mentre secondo il capo di stato maggiore israeliano, Gabi Ashkenazi, «la prossima guerra sarà a Gaza», ancora e ancora, e minacce di nuovi imminenti attacchi sono passeggeri come nuvole tenebrose nel cielo di una Palestina occupata ormai da più di 42 anni. Congedandosi da me, Alberto m’ha confidato di un inaspettato istinto paterno, di come, tornato in Spagna gli veniva naturale stringere a sé ogni bambino quasi per proteggerlo. E per questo presto diventerà padre. Sia maschio o femmina suo figlio porterà il nome di una delle innocenti vittime dei bombardamenti di gennaio. Il governo israeliano gli ha fornito un’ampia scelta di appellativi possibili avendo ucciso più di 400 bambini.
Tutti noi reduci, insieme ad altri 1.500 cittadini di 42 paesi diversi, ci siamo dati appuntamento oggi qui al Cairo. Per una marcia che si spera possa fungere da lima per segare le sbarre di Gaza e da cassa di risonanza per i cittadini del mondo sensibili alla pace e ai diritti umani e consapevoli di quanto sia più avvilente il silenzio degli onesti del disprezzo dei violenti. Restiamo umani