L’odiosa retorica con cui lo stato tenta di difendersi
dall’”effetto bare” è ormai solo un inutile rumore di fondo. Lo squarcio quei
150 chili di esplosivo non l’hanno prodotto solo sulle lamiere del blindato
Lince della Folgore. La guerra, la sua brutalità e concretezza, è di nuovo,
forse non per molto, svelata, nuda. Quello che le notizie (poche) e le immagini
( pochissime) delle stragi di civili, di bambini, di donne e uomini di tutte le
età e di ogni condizione sociale compiute dalla Nato, dagli americani, dagli
inglesi e anche dagli italiani, non riescono mai a fare, lo fanno, quando
accade, le bare che tornano a riempire l’altare della patria.
La retorica le
accoglie, impedisce che vengano sbattute sulla tavola aparecchiata
dell’italiano medio, mentre si appresta a cenare. Le adagia piano piano in
mezzo a corone d’alloro e bandiere, nasconde l’odore della morte, dei corpi
fatti a pezzi, con quello della naftalina dei vestiti da parata dei corazzieri
e dell’incenso delle chiese. Ma ogni volta, e i governi lo sanno bene, è sempre
più difficile. E quel tempo che si apre, squarciato, tra una bara e l’altra,
tra un funerale e un altro, perché così si scandisce il procedere di ogni
guerra, è un tempo a rischio per chi comanda e impone la guerra.
Lascio i discorsi
di cordoglio per i militari e le loro famiglie a qualcun altro, come quelli
sulle missioni di pace per portare democrazia, o dall’altro versante quelli
sull’imperialismo americano o sui combattenti della resistenza afgana. Roba da
funerale, appunto, buona per chi ha già celebrato quello del suo cervello e
della sua libertà. Invece credo che questo tempo, che durerà poco, vada
riempito subito con una grande e rinnovata sfida alla guerra. Dagli stati uniti
all’europa è il momento, di nuovo, di cogliere l’occasione e tornare a
costruire mobilitazioni forti per delegittimarla e batterla. Per far ritirare i
soldati e impedire che essa si prenda più spazio di quanto non abbia già
sottratto alla democrazia vera, alla giustizia sociale, alla libertà e all’indipendenza.
Sono altresì convinto che con gli arnesi del ceto politico, anche quello
post-noglobal, non andremo molto lontano. E’ necessario parlare a molti, a
milioni di persone che in questo momento possono ascoltare, e per farlo bisogna
mettersi nelle condizioni di essere parte, di contribuire, alla formazione di
qualcosa di più grande di noi, fatto di tanti e diversi, accomunato
temporaneamente da un desiderio comune, quello di fare qualcosa perché la
guerra si inceppi.
Il far tornare a casa i soldati, tutti professionisti dei
corpi d’elite, che fanno questo di mestiere e non per costrizione, di certo non
farà cessare le atroci sofferenze che da almeno trentanni il popolo, o meglio i
popoli che abitano i monti e le pianure chiamate Afghanistan, ininterrottamente
devono subire. Li attende la barbarie delle bande e del fanatismo religioso, un
miscuglio tra affari, sadismo e fascismo. Quelli che tagliano le dita a chi va
a votare, o i signori della guerra e dell’oppio amici di Karzai, o i
reclutatori di bambini schiavi, o i torturatori delle donne. Non ci sarà certo
la fine della guerra per questa gente sfortunata, che ne combatterà una al
giorno, o al minuto, per sopravvivere, anche dopo che l’ultimo soldato invasore
se ne sarà andato. Ma il ritiro delle truppe occidentali, l’unica cosa su cui
noi, da qui, possiamo incidere, può significare molto, anche al di là
dell’interrompere la partecipazione della nostra parte di mondo alla
carneficina diretta contro i civili, ciò che la guerra è nelle sue materiali
conseguenze.
Ma appunto non è solo questo, anche se l’orrore deve bastare a
motivarci. La guerra è oggi, come ogni azione strutturata a livello del comando
globale, anche un enorme catalizzatore della crisi. A meno che non pensiamo che
in fondo tutto cambia ma in realtà tutto resta sempre uguale, la crisi di
sistema che da un anno e mezzo investe le strutture del capitalismo, ha
modificato anche la guerra, la sua possibilità di utilizzo intensivo e
progressivo nel governo del mercato e del pianeta. Se vogliamo forse è proprio
negli apici di guerra, lì dove la sua geometria variabile mostra il massiccio
impegno della macchina economico militare e il conto delle vittime è a sei
zeri, che la crisi è stata anticipata, e se non provocata, di sicuro acuita e
velocizzata.
Il fallimento dell’avventura iraquena di Bush, quanto ha inciso
sul crollo delle banche d’affari di Wall Street? E viceversa, i sentori
dell’imminente crollo della finanza, come hanno pesato sulle scelte politico
militari? Sono domande che è
legittimo porsi, vista anche la stretta connessione temporale degli
accadimenti. E la risposta, al di là dei necessari approfondimenti, non può che
portarci ad una stretta connessione tra guerra e crisi.
Se così è, lottare
contro la guerra significa oggi anche impedire che le impotesi di exit
strategy, dalla crisi e non dall’Afghanistan, propendano verso un utilizzo
maggiore della guerra come elemento di stabilizzazione, o di riequilibrio,
dell’economia globale. Lì dove non può il sistema finanziario, i cannoni sono sempre
a disposizione. Non è certo passato inosservato, ad esempio, il comportamento
bifronte di Obama nell’affrontare l’Iraq da una parte e l’Afghanistan
dall’altra. Via armi e bagagli dal primo teatro, e aumento dei soldati, e due
su tre oggi sono americani, nel secondo. Semplice furbizia del governante,
oppure qualcosa di più complesso, legato proprio all’ipotesi che
l’intensificazione dell’impegno militare in Afghanistan potesse essere volano
di ripresa per l’economia americana, e soprattutto per le quotazioni americane
nel borsino dei potenti del mondo? In ogni caso l’idea che l’aumento del tasso
di guerra generale possa contribuire alla rimessa in sesto del ciclo
finanziario globale, non è certo una novità.
La teorizzavano i neocon di Bush,
ma anche molti esponenti di spicco democratici, giocando proprio sull’aspetto
dell’aumento, tramite la guerra, del tasso di democrazia reale e subordinata ad
un governo multipolare del pianeta. Ne abbiamo anche esempi nostrani, e non c’è
qui bisogno di ricordarli. Vi è poi un secondo aspetto che interessa il binomio
guerra/crisi, e che non è meno importante: il caos.
Pur essendo questa una crisi strutturale globale, non è
catastrofica. Chi pensa che bisogna solo aspettare il crollo imminente del
capitalismo, aspetti. In realtà questa crisi che è globale, profondamente
annidata nei gangli più profondi del sistema, ma non è catastrofica, e non ha
ancora conosciuto nessuna ipotesi di superamento capace di affermarsi senza
entrare in crisi essa stessa, definisce una situazione di caos in cui tutto e
tutti siamo immersi. Anche l’andamento della guerra, la sua crisi
nell’affermarsi come strategia vincente e la sua impossibilità di produrre uno
sviluppo, un’uscita, un avanzamento, è il caos. In questa situazione grandi
sono le possibilità di affermare un altro mondo e modo possibile di vivere, ma
grandi sono i rischi, perché tutte le opzioni sono in campo. Quella che tenta
di uscire dalla guerra dispiegata, e quella che invece vorrà rilanciare, con
nuovi scenari da aprire anche a noi geograficamente molto vicini. E’ meglio per
tutti, e in primis per coloro che rischiano di essere bombardati, che vinca la
prima ipotesi. E noi dobbiamo costringerla a vincere, e dobbiamo distruggere
l’altra.
Abbiamo bisogno di tornare a costruire, a produrre lo spazio
pubblico dell’opinione contro la guerra. Dobbiamo usarlo come motore e terreno
di consenso, di egemonia, per poter esercitare la nostra azione contro la
guerra. Per essere legittimati a delegittimare. E’ per questo che nei prossimi
giorni e mesi è necessario esserci. Partecipare a tutto ciò che si muoverà
contro la guerra, e determinare un nuovo inizio. Il tempo è una risorsa scarsa,
e in questo caso è ancor più vero. Prima che si richiuda lo spazio che esiste
tra un gruppo di bare in mostra sull’altare della patria e l’altro, dovremmo
agire. (Luca Casarini)