Ci sono cinque donne. Si
chiamano Joy, Hellen, Florence, Debby e Priscilla. Hanno partecipato,
quest’estate, alla rivolta scoppiata nel Cie di via Corelli a
Milano. Joy ed Hellen denunciano poi un tentativo di stupro da parte
del vicequestore, Vittorio Addesso. Si sta aspettando la loro
scarcerazione dalla casa circondariale di Como, il 12 febbraio
prossimo. Il timore (assai fondato) è che, uscite di lì,
possano finire, di nuovo, in un altro Cie. L’appuntamento, per
tante, è dunque fissato, il 12, davanti al carcere di Como,
per aspettarle. Improvvisamente, arriva la notizia che Joy ha
ricusato l’avvocato che la seguiva sin dall’inizio nel processo
d’appello per la rivolta di Milano e nella denuncia per tentata
violenza sessuale. Joy ha ritenuto di affidarsi all’avvocato
d’ufficio. L’avvocato d’ufficio è un personaggio che, di
solito, nei film, si alza in piedi e dichiara: “Mi appello alla
clemenza della corte”. Sarà impazzita, Joy, o qualcosa –
qualcuno ‒ l’ha
indotta ‒ convinta ‒
a fare tale scelta? E perché?
Questa storia brutta è
utilissima per riflettere sul tema della violenza sulle donne
migranti, nei Cie, in termini generali. Che cosa siano lager come i
Cie, a che cosa porti l’introduzione di un abominio giuridico come
il “reato di clandestinità” non c’è bisogno di
spiegarlo a chi legge queste righe. Ma forse va riflettuta meglio la
contraddizione palese di una società che non ha ancora risolto
il nodo privato/pubblico. Questo Paese ci appare perfettamente
femminilizzato. Nei giornali, sul lavoro, in politica la differenza
femminile sembra rappresentare la cifra costituente di ogni recesso
del reale: eccole le donne, finalmente fuori dal privato,
protagoniste dello spazio pubblico. Si ritorna, però, al
problema del privato e del pubblico quando vengono allo scoperto le
scappatelle sessuali di un Premier imbarazzante (altri casi si
aggiungeranno, uno più incredibile dell’altro). All’istante,
si riassegnano i ruoli (lui il potente, lei la vittima, la poverella,
la dannata) e con essi le lamentazioni, le indignazioni, la rabbia.
Seguono serrate discettazioni che servono a dire che chi è
pubblico deve fare ben attenzione al privato. Si ricorda
l’insegnamento del femminismo.
Che cosa accade, però,
quando i corpi sessuati (femminili) in questione sono quelli delle
immigrate straniere chiuse nei Cie? Non è difficile immaginare
che essi potranno dover subire, nell’anomia e “informalità”
consentita dal lager, molti soprusi e abusi, anche di carattere
sessuale. Altro che “papi”. Nel chiuso di un luogo che lo Stato
si è dato per difendere soprattutto la “sicurezza” di
altre donne (le “native”, serie A), il tema non diventa pubblico,
non crea particolare scandalo né suscita alcun appassionato
dibattito. Fatica a uscire da uno spazio recintato (risbuca il
“privato”, nel suo significato autentico e originario) che genera
dominio e dipendenza, non assume la dignità politica di una
battaglia imprescindibile per chi, tra le donne, nel femminismo, sta
ben salda nel “pubblico” dei giornali e delle università.
Francamente, che libertà,
che diritti, che futuro possono essere dati, davvero, per le donne,
se si tace su questo circuito osceno, che altre donne (serie B) sono
costrette a sopportare? Non è forse questa – e non altre ‒
la vera essenza del dilemma privato/pubblico che andrebbe sviscerato
(aggiornato), di questi tempi? Non è per questo che vale la
pena di indignarsi, di sentirsi offese? (Cristina Morini)
Per maggiori informazioni