Chi volesse intraprendere la certo non avvincente lettura del gelminiano “Disegno
di legge in materia di organizzazione e qualità del sistema
universitario, di personale accademico e di diritto allo studio”, che verrà presentato a breve, può tranquillamente cominciare dalla fine (art. 15, comma 6): “Dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
Ecco
la cosa importante: la strategia del governo sull’università consiste
di tagli e dismissione, punto e basta. A partire da qui, si possono
leggere a cuor leggero le trenta cavillose e confuse pagine del Ddl
certi di averne afferrato il senso. Non è un caso, del resto, che
nonostante si premetta che ogniqualvolta si parli di “Ministero” ci si
riferisca a quello dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in
realtà l’altro Ministero – cioè dell’economia e delle finanze – è
citato in ugual misura e puntualmente a proposito delle questioni di
centrale rilevanza.
Il Ddl è suddiviso in tre parti: governance,
meritocrazia, personale accademico. È un progetto di aziendalizzazione
dell’università, potrebbe dire qualcuno. Preferiamo però non concedere
con troppa facilità all’avversario la perversa dignità di una parola
che – per accordarci subito con il leit motiv del testo – non “meritano”, né per intelligenza né per coraggio strategico.
Vediamo
infatti in cosa concretamente consiste la via italiana
all’aziendalizzazione, da tempo sognata dagli algidi ideologi della
Bocconi e del Corriere della Sera. Da sempre, si sa, le imprese
italiane hanno avuto un ruolo parassitario rispetto al sistema
formativo, succhiando forza lavoro istruita e non versando una lira
prima e un euro poi; i baroni, dal canto loro, hanno potuto riprodurre
privilegi e posizioni di rendita, affidate loro dallo Stato.
Questo
Ddl cerca forse di modificare il ruolo del privato-parassita e scalfire
le rendite di posizione del pubblico-feudale? Niente affatto. Anzi,
rafforza entrambi. Da un lato, garantisce alle aziende la condizione
migliore per continuare a succhiare indisturbate senza investimento e
senza rischio.
L’articolo 2, che disegna “organi e
articolazione delle università”, attribuisce maggior peso decisionale
al consiglio di amministrazione, che deve essere composto da “personalità
italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo
gestionale e di un’esperienza professionale di alto livello”, con una “non
appartenenza di almeno il quaranta per cento dei consiglieri ai ruoli
dell’ateneo a decorrere dai tre anni precedenti alla designazione e per
tutta la durata dell’incarico” (lettera g).
Insomma, il
piccolo o medio imprenditore del Nord-est, iperspecializzato nella
produzione di un pezzo ultraspecifico nella filiera globale
dell’occhiale o dello scarpone da montagna, che sfrutta ad alta
intensità forza lavoro a bassa scolarizzazione o pagata come tale anche
quando non lo è (i migranti), non verserà certo soldi nelle esangui
casse degli atenei. In compenso, potrebbe però condizionarne la
politica e le scelte: se nel brevissimo periodo servono tecnici
specializzati in un campo di cui si fa fatica perfino a pronunciare il
nome, perché non aprire un corso di laurea a veloce obsolescenza finché
il mercato non sarà saturo e tagliare inutili e costosi dipartimenti,
che non servono nemmeno a sfornare un operaio specializzato?
I
baroni, dal canto loro, possono rallegrarsi delle “norme in materia di
personale accademico e riordino della disciplina concernente il
reclutamento”. L’istituzione dell’“abilitazione scientifica nazionale”
per i docenti di prima e seconda fascia, di durata quadriennale, è
decisa da una commissione nazionale formata mediante sorteggio tra
professori ordinari. Ciò che viene fatta passare per una norma che
scavalca le lobby accademiche locali, non solo lascia l’“abilitazione”
nelle mani delle cricche degli ordinari a livello nazionale, ma poche
pagine più avanti (articolo 9, comma 2, lettera c) fa rientrare dalla
finestra ciò che era apparentemente uscito dalla porta.
La
decisione finale, infatti, spetta alle commissioni locali composte da
ordinari e, nel caso dei ricercatori, da alcuni associati. Il posto da
ricercatore, poi, come già stabilito dalla legge Moratti nel 2005 è
posto in esaurimento, quindi sostituito da contratti di soli tre anni
rinnovabili – previa valutazione – un’unica volta, aumentando così la
ricattabilità dei ricercatori stessi nel vincolo individuale con il
docente di potere. Inutile dire che la frase “senza oneri aggiuntivi a
carico della finanza pubblica” ricorre, in questi articoli come in
tutto il testo, in modo ossessivo come premessa e sostanza. Non solo:
se non ci sono adeguate risorse, professori e ricercatori possono
essere “collocati a riposo”. Amen.
In questo quadro di governance
di un’università abbandonata alla sua inerziale rovina, gli studenti
devono essere resi complici della nave che affonda: i loro
“rappresentanti” vengono quindi “integrati” come stakeholder (del
fallimento), ovviamente subalterni e privi di potere decisionale. Non
solo: di fronte alla “razionalizzazione” dei fondi (forma elegantemente
manageriale per definire la mannaia che, brandita dai consigli di
amministrazione, si abbatte sulle risorse residue del sistema
formativo), gli studenti devono dimostrarsi “meritevoli”.
Ciò
garantisce l’accesso ai prestiti d’onore, nome curioso con cui si
etichetta quel sistema del debito che, fallito negli Stati Uniti, è
alla radice della crisi contemporanea. Ma è il Ministero (quello
dell’economia e delle finanze, prima ancora di quello dell’istruzione,
dell’università e della ricerca), attraverso il “Fondo speciale per il
merito finalizzato a sviluppare l’eccellenza e il merito dei migliori
studenti, individuati tramite prove nazionali standard”, a disciplinare
i ferrei criteri per avere accesso al prestito. Insomma, ci sono molte
più possibilità con “Win for Life”!
Vorremmo a questo punto
poterci dedicare a dimostrare come il lessico della meritocrazia sia la
mistificante retorica che rovescia la realtà del declassamento e della
precarietà nelle illusioni giustizialiste di un mitologico mercato non
corrotto e di una competizione moralmente pulita. Purtroppo dobbiamo
partire da molto più indietro, dicendo che la meritocrazia (come le
riforme) non si fa a costo zero: il caso americano e i miliardi di
dollari pubblici e privati investiti nelle università sono un noto
esempio.
In altri termini, in Italia va innanzitutto
evidenziato che la meritocrazia, prima ancora di tutto il resto che si
può dire su di essa, funziona al contrario, ovvero è ciò che giustifica
i tagli – pardon, la razionalizzazione. Anziché essere un (peraltro
discutibile) premio per pochi, significa peggioramento delle condizioni
di vita e dequalificazione del sapere per tutti. Al limite, stabilisce
una gerarchia per vedere a chi andrà molto male e a chi meno.
Prendiamo
i cosiddetti percorsi di “eccellenza”. Negli Stati Uniti sono delle
classi riservate alle élite in cui gli studenti vengono a contatto con
lo star system dell’università globale. In Italia si rinomina il
vecchio corso di laurea come percorso di eccellenza, recintandone
l’accesso, e si abbassa ulteriormente la già scarsa qualità dei
restanti piani di studio, che sono resi ancor più rigidi e insulsi.
Nella facoltà di lettere della Sapienza – per citare il pachidermico
caso di un ateneo all’affannosa rincorsa di furbesche soluzioni che
consentano di scalare qualche posizione nella gerarchia rovesciata
della cosiddetta “qualità” ed “efficienza”, cioè a ridurre un poco i
pesanti tagli subiti nella scorsa estate – si è trovata la formula del
debito in accesso, di cui gravare gli studenti (la maggior parte) che
non abbiano sostenuto prove soddisfacenti nei test di ingresso.
La
“meritocrazia” è così utilizzata per scaricare sugli studenti la
mancanza di qualità dei docenti, ovvero per preservare le posizioni di
rendita dei baroni. Solo che si pone ora la questione: come si ripiana
il debito? Con corsi aggiuntivi, che peserebbero sulle già dissestate
casse dell’ateneo? O esigendo un numero maggiore di crediti di quello
previsto, allungando così i tempi della laurea triennale, procurando
costi aggiuntivi e mandando ulteriormente in fumo il già svanito
obiettivo della riforma del 3+2, cioè l’eliminazione del
“fuoricorsismo”? Nessuno sa rispondere.
Nel frattempo, però, lo
studente – con o senza “merito” – deve essere formato ad essere
precario indebitato. E la crisi dell’università, così dice il coro
unanime da via Solferino a viale Trastevere, passando per senati
accademici e consigli di amministrazione, la paghino gli studenti
attraverso l’aumento delle tasse!
Per mobilitarsi contro un
progetto di questo tipo, non si possono certo scavare le trincee
attorno alla difesa di ciò che non è difendibile, cioè quel pubblico
che si è combinato con il privato nello smantellare il sistema
formativo. Bisogna attaccare. Innanzitutto riappropriandosi di reddito
e di un nuovo welfare non solo rispetto alle amministrazioni locali e
statali, ma anche ai nuovi attori che gestiscono la segmentazione della
ricchezza sociale.
È necessario occupare le banche, le
finanziarie e le istituzioni che fanno i “prestiti d’onore”, non per
bloccare l’emissione del credito, ma per non ripianare il debito.
Diritto alla bancarotta per i precari, ecco la parola d’ordine.
Riappropriarsi delle risorse oggi congelate nel rapporto
pubblico-privato, significa impostare correttamente la questione della
valutazione: non come gerarchizzazione competitiva della forza lavoro,
recinzione della conoscenza e giustificazione del declassamento (leggi
meritocrazia), ma in quanto processo di produzione di un sapere di
qualità e decisione completamente all’interno della cooperazione
sociale. Un sapere di eccellenza in quanto comune.
Tale
questione già vive dentro i percorsi di autoformazione e autoriforma:
ora deve diventare istituzione, riappropriarsi dei dipartimenti,
rivendicare quell’“autovalutazione” che (come detto chiaramente
nell’articolo 5) si vorrebbe prerogativa solo dei baroni. Qui la posta
in gioco è una nuova organizzazione dei saperi, dopo l’ormai consumata
crisi delle discipline moderne: compito troppo importante per lasciarlo
nelle mani dei funzionari pubblici e privati.
Allora,
distinguendoci irreversibilmente dalle resistenza conservatrici che
difendono gli ultimi brandelli della “torre d’avorio” per mantenere la
vigenza dei rapporti feudali, diciamo che la Gelmini si è dimostrata
pavida e pusillanime, incapace di attaccare interessi parassitari e
rendite di posizione. Contro i riformisti metafisici, diciamo che
cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia: annunciano di
voler cambiare tutto per non mutare nulla.
Coprono l’assenza di idee sull’università con un vacuo linguaggio manageriale, efficientista e razionalizzante, à la Giavazzi, e/o con le retoriche della lotta ai corrotti per salvare un sistema che produce esso stesso corruzione, à la
Perotti. Da questo doppio movimento critico e radicale, si situa
l’alterità di una resistenza che è immediata trasformazione, di una
autoriforma che ha respiro strategico perché si incarna nell’onda del
sapere vivo.
Insomma, noi che la combattiamo, sappiamo che
l’aziendalizzazione è una cosa seria. In attesa di trovare un nemico
all’altezza, diciamo con chiarezza che questa “riforma” dell’università
si chiama, banalmente, truffa.
Da globalproject (testo pubblicato anche sul quotidiano "Il Manifesto")