La guerra a Vicenza

Di Luca Casarini (da www.globalproject.info)

Quella appena vissuta a Vicenza è stata una giornata difficile, ma
straordinariamente importante. 

Difficile perché il popolo del No Dal
Molin, e con esso tutte le realtà sociali che hanno risposto
all’appello e sono giunte da ogni parte d’Italia, si è trovato a fare i
conti con lo stato d’eccezione. La guerra, quella che diviene unica
legge sopra ogni diritto o garanzia democratica, oggi secondo i piani
del Ministero degli Interni guidato dal leghista Maroni ( quello di
"paroni a casa nostra" ) e del governo, doveva prevalere su tutto. E in
questo stato d’eccezione imposto a Vicenza, attraverso una vera e
propria occupazione militare della città, si possono scorgere le
caratteristiche fondamentali del rapporto tra governanti e governati
che si vorrebbe instaurare in questa epoca. Lo stato di eccezione, la
sospensione della costituzione, un tempo si intendeva come "tempo
intermedio", tra un momento e l’altro, a significare l’eccezione
appunto, che conferma la regola di un rapporto sociale basato su ben
altri parametri.

Oggi invece, ed è a Genova, nel 2001 che le basi di
questo nuovo modello sono state gettate, lo stato d’eccezione è
permanente e a geometria variabile. La guerra c’è sempre, e cambia
l’intensità. I carabinieri del Tuscania, con i blindati antisommossa
con le scritte in arabo, perchè sono gli stessi impiegati in Iraq, in
Afghanistan o appunto in una delle nostre città, o i reparti della
polizia o della finanza, presidiavano con uno schieramento mai visto,
delle reti che circondano un pezzo di terra completamente vuoto. Di
base americana, per fortuna certo, non c’è nemmeno l’ombra al Dal
Molin.

Ma quei militari non erano lì per proteggere niente. La loro
presenza così invasiva, ostentata, arrogante e anche scandalosa, aveva
solo funzioni di attacco. Dovevano occupare e annientare qualsiasi
spazio dialettico che, in anni di lotte della realtà del Presidio No
Dal Molin, si è costruito. Una dialettica reale, che contrappone ogni
visione armonica e lineare dei processi sociali, alla materialità della
conquista, passo dopo passo, dei propri spazi di democrazia, di
agibilità, costituenti di qualcos’altro da quello che è dato ed è
frutto dell’intero sistema, dal governo all’opposizione, dal parlamento
alle istituzioni. La guerra quindi, utilizzata come dispositivo
liquido, in grado di riempire ogni striatura provocata da una
resistenza che diviene progetto di un altro modo di vivere, di
decidere, di un altro "comune" come dicono i vicentini.

Difficile
quindi oggi trovare la maniera di non permettere che questa melma
fluida, armata fino ai denti, non penetrasse in maniera distruttiva
negli spazi vitali che hanno fatto dell’indipendenza la propria ragione
di esistere. Ma il No Dal Molin e le migliaia che sono scesi in piazza
ci sono riusciti. Quel "Yes We Can" dello striscione che apriva il
corteo, innanzitutto oggi parla a noi. Si Può fare, anche se c’è la
guerra. La determinazione e l’indignazione non hanno mai ceduto il
posto oggi alla rassegnazione. L’aver costruito un meccanismo di
partecipazione che prevedeva anche ruoli e funzioni diverse all’interno
di un unico corpo, dalla testa, piena di giovani di Vicenza e di tante
città, che in maniera autodifesa  ha permesso di "aprire" le strade al
corteo, alla gestione continua dal palco della comunicazione, al
Presidio da cui non se ne è andato via nessuno, per riprendere e
finalmente manifestare dopo gli scontri avvenuti con i carabinieri e la
polizia, è risultato vincente. Ed è qui che una prima riflessione sul
futuro può nascere utilizzando ciò che si è imparato a Vicenza. La
guerra, questa forma di guerra contro la democrazia che nasce dal
basso, ce la troveremo difronte ancora.

Ma quando come oggi fallisce i
suoi obiettivi, che beninteso possono essere raggiunti anche con un
massacro come a Genova, rafforza il contropotere che gli si oppone. Ed
esso può chiamarsi tale solo se riesce, anche nei momenti di resistenza
o di assedio, a proporsi come progetto, ad articolare le sue modalità e
le sue funzioni. Oggi quelli del No Dal Molin sono andati fino in
fondo. Hanno assunto il dato che l’unica maniera pacifica di opporsi
alle imposizioni, è quella che difende la sua gente in uno stato
d’eccezione permanente. E’ quella dunque che non si rassegna, perchè
questo equivarrebbe a tornare tutti a casa, ma pensa a come mantenere
aperti quegli spazi e a impedire che vengano riempiti dalla guerra
fluida, normalmente terribile. Ha perso oggi Maroni, il leghista che
comanda le truppe di stato. Hanno perso anche quelli che proiettano sui
movimenti un’immagine ipocrita e distorta secondo la quale bastano le
sfilate e le petizioni (o i voti) per cambiare il mondo. Quello del
No Dal Molin è un nuovo modo di procedere, che definisce in modo
originale come attraversare la guerra senza che essa ti invada.

Questo
è il vero significato della parola "pace". Non quello che aveva assunto
in questi anni, dove essere pacifisti in sostanza significava non
opporsi mai, permettendo tutto alla guerra.

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