Quando nel novembre ’86 si spense Archibald Alexander Leach – in arte Cary Grant – uno dei più raffinati interpreti dell’epoca d’oro di Hollywood, pensai che allora dobbiamo veramente andarcene tutti. Perciò è con nessun dolore, ma con un moderato senso di benessere, che ho accolto la notizia della dipartita di Francesco Cossiga – in arte Francesco Kossiga – attore, regista e sceneggiatore, forse il più impegnato tra i protagonisti di uno dei periodi più bui della storia della nostra cinematografia. Certo uno dei più basterds, per dirla alla Tarantino.
Nato a Sassari nel ’28, approda al cinema a soli 17 anni iscrivendosi alla Democrazia Cristiana e in breve tempo dirige il suo primo cortometraggio sperimentale “W la Fuci”, sorta di ingenuo porno-soft ambientato nella federazione universitaria cattolica. Ma la sua vocazione è drammatica e nel ’58 sceneggia e dirige “La battaglia dei giovani turchi”, in cui si ritaglia il ruolo di un giovane arrampicatore che, sconfessando la vecchia classe dirigente democristiana, in realtà punta in alto e riesce ad ottenere un posto alla Camera dei deputati. E’in questo periodo che si consolida la sua credibilità come attor giovine, il che gli consentirà in futuro di ricoprire i ruoli di più giovane ministro degli Interni, più giovane presidente del Senato, più giovane capo dello Stato. Nel ’66 interpreta “Sottosegretario alla Difesa”, ambiguo e sottovalutato ruolo che, sotto le apparenze del fedele servitore del partito di governo, cela la pulsione incontenibile del protagonista verso le segrete cose dello Stato e delle relazioni internazionali.
Nel ’76 interpreta il primo ruolo che gli darà fama mondiale: “Viminale”. Forte del consenso ottenuto nella parte del ministro dell’Interno spregiudicato e cinico e grazie anche alle forti tensioni sociali e conflitti che in quel periodo caratterizzano il cinema italiano, torna alla regia firmando quella che verrà ricordata come la “Trilogia del Sangue”. Nel ’77 dirige ben due film. “L’assassinio di Francesco Lorusso”, vicenda di uno studente universitario che a Bologna viene ucciso dalle forze dell’ordine, ritagliandosi il ruolo del ministro dell’Interno che come risposta all’indignazione popolare invia all’università i blindati M113, cui fa seguito il sequel “L’assassinio di Giorgiana Masi”, ambientato a Roma e imperniato sull’uccisione di una giovane militante della sinistra, questa volta a opera di reparti speciali della Polizia di Stato in borghese. Da ricordare le belle foto di scena del fotografo Tano D’Amico, che rendono chiarissima la parte oscura della trama.
Nel ’78, prima dell’ultimo capitolo della trilogia, dirige ancora “Nocs & Gis”, a metà tra action movie e spy story, in cui si narra della riforma dei servizi segreti, della creazione dei reparti speciali di Polizia e Carabinieri e della loro messa alle strette dipendenze dell’esecutivo. Pochi mesi dopo dirige e interpreta il suo primo capolavoro: “Il caso Moro”. E’ la storia del rapimento di un immaginario presidente della Democrazia Cristiana da parte di un immaginario gruppo eversivo chiamato Brigate Rosse che intende rilasciarlo solo ad avvenuta liberazione di una manciata di loro compagni prigionieri. Kossiga interpreta ancora una volta il difficile ruolo di ministro dell’Interno – reso ancora più doloroso dall’essere il rapito suo maestro, compagno di partito e amico fraterno – impegnato sul fronte della fermezza. Vicenda onirica di cinismo e incompetenza, spregiudicatezza e tradimento, pirateria politica e cialtronaggine, miopia rivoluzionaria e autolesionismo, intrecci innominabili (Servizi, Cia, P2, banda della Magliana) e tragicommedia (la seduta spiritica alla ricerca della prigione del popolo) che va a concludersi con la “inevitabile” morte del rapito.
Il grande successo internazionale lo porta l’anno successivo a interpretare “Il presidente del Consiglio dei ministri”, storia di un ministro dell’Interno dimissionario che nel giro di un anno diventa capo dell’esecutivo attraversando indenne stragi e misteri (Ustica e Bologna); a dirigere “Le leggi di K”, lungometraggio imperniato sull’entrata in vigore di leggi speciali e retroattive che inaspriscono le pene relative a reati legati a fenomeni di eversione sociale e soprattutto introducono la normativa premiale per i delatori, cui vanno forti sconti di pena; dirige “Nessuna pietà”, thriller paranormale in cui si ipotizza che le forze dell’ordine possano catturare i ricercati per sovversione senza darne tempestiva notizia al magistrato, contestualmente ottenendo confessioni sotto tortura; dirige e interpreta però il suo primo flop: “Il caso Donat Cattin”, dramma politico-familiare in cui un presidente del Consiglio (lo stesso Kossiga) avverte un suo compagno di partito che suo figlio è indagato e prossimo all’arresto – essendo coinvolto in un’organizzazione terroristica – suggerendone l’espatrio. Il Parlamento ritiene infondata l’accusa, ma la faccenda è complicata da un pentito che, proprio in forza delle Leggi K, non ritratta questa rivelazione e dall’irriducibile atteggiamento accusatorio del cugino del presidente, capo del principale partito di opposizione.
Il grande pubblico mostra di non gradire questa storia torbida e mortificante di intrallazzi e disonestà intellettuale e nessun produttore sembra interessarsi più alla figura di Kossiga. Ma, inspiegabilmente, nel ’83 gli viene offerto il ruolo di protagonista ne “Il presidente del Senato”. Non perde l’occasione e sull’onda di questo successo nel ’85 può così dirigere e interpretare il suo definitivo capolavoro: “L’ottavo presidente della Repubblica Italiana”, in cui interpreta un doppio ruolo che passerà alla storia, in una pellicola amata soprattutto da blasonati colleghi come Cronemberg e Woo. Il Presidente Notaio, in cui interpreta un docente di diritto costituzionale impegnato a definirne la relazione con i poteri del presidente della Repubblica (ad es.: chi comanda in caso di guerra?), rigoroso nell’osservanza delle formalità istituzionali. Il Presidente Picconatore, in cui interpreta un uomo politico folgorato dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda, preso da un raptus di conflitto e polemica, spesso provocatorio, talvolta palesemente delirante. Il film si chiude con le dimissioni del protagonista a due mesi dalla scadenza naturale del mandato, gesto annunciato con un discorso televisivo simbolicamente pronunciato il 25 aprile.
Comincia da qui la sua parabola discendente. E’ un insuccesso clamoroso “Gladio”, del ‘92, peplum movie trasformato in spy story, in cui narra della sezione italiana di un’organizzazione segreta dell’Alleanza Atlantica, assegnandosi il ruolo dell’uomo politico di potere che la gestiva dal lontano ’66. Una storia di cellule dormienti di civili pronti ad armarsi in caso di pericolo rosso, determinati a neutralizzare gli esponenti di punta della sinistra, del sindacato e dei partiti, che non piace al grande pubblico. Questo determina il progressivo allontanamento di Kossiga dal set, ma non dal mondo della fiction. Collabora infatti ancora alle sceneggiature di “Udr”, “Cdu”, “Ccd” sul canovaccio del vecchio copione de “La Dc”, film che all’uscita risentono però di grossi problemi di casting e di credibilità. Nel 2006 scrive “Le mie dimissioni (da senatore a vita)” senza trovare però le sufficienti adesioni editoriali. Cerca ancora di riciclarsi come opinionista: è del 2008 l’intervista sulla sua sceneggiatura relativa al contenimento del dissenso universitario, nella quale però molti ravvisano troppi evidenti rimandi alla mitica e irripetibile “Trilogia del Sangue”.
Negli ultimissimi anni questo grande artista è sembrato volersi ritirare dalla scena, forse per dedicarsi con più assiduità alle sue passioni private: il diritto costituzionale, le trame occulte, i soldatini da collezione, le falsificazioni storiche, l’attività di radioamatore, l’esoterismo, la denigrazione di chi lo invisa, le asserzioni criptiche. Scompare con lui un protagonista assoluto della nostra cinematografia, un eclettico mai vincolato a un unico genere, sempre pronto a ghermire le possibilità che talento, collusioni e giochi di corridoio gli hanno offerto. Padre assoluto e riconosciuto di una cinematografia fatta di non detto, o detto tardi, o detto ambiguamente, o detto a nuora perché suocera intenda. Maestro di un mestiere infame e di colpi di scena ci lascia, onorando fino all’ultimo il suo stile, con un’ultima sorpresa, una sceneggiatura rimasta fino ad ora segreta: “I Quattro Sigilli”. Non vediamo l’ora di conoscerne i contenuti. Intanto addio Francesco, che la terra ti sia pesante e piena di vermi. Noi che ti abbiamo conosciuto e apprezzato, noi che abbiamo ancora sulla pelle i segni del tuo carisma, noi, parafrasando Boris Vian, sputeremo sulla tua tomba.
Di Marco Rigamo. Da: globalproject